Quanta felicità si può comprare con i soldi?
Non moltissima, secondo la scienza, certamente molta meno di quanto il senso comune suggerisca. Si accumulano i dati secondo cui i soldi che abbiamo incidono sul benessere psicologico percepito, ma in modo davvero significativo soltanto nella misura in cui consentono di uscire dalla povertà: una volta soddisfatti i bisogni di cibo, sicurezza e salute, una crescita di reddito ha un impatto minimo sul benessere psicologico; addirittura può, a certe condizioni diminuirlo per una serie di ragioni.
A dispetto di ciò che molte pubblicità ci inducono a pensare quando associano il benessere al possesso di alcun beni di lusso, a dispetto di quanto affermano alcuni dei guru dell’intelligenza finanziaria, a dispetto di tutto un sottobosco di cultura pop e musica trap che inneggia a un certo stile di vita, attraverso il denaro non possiamo acquistare molto di ciò che ci rende realmente felici.
La psicologia sociale sta facendo un grande lavoro per capire cosa succede veramente nella nostra testa quando ci troviamo, per un aumento di stipendio o altre ragioni, ad avere il portafogli più gonfio, indipendentemente da quanto ci viene suggerito dalla cultura in cui siamo cresciuti.
Innanzitutto, un aumento di disponibilità economica, come tutte le situazioni nuove, è inesorabilmente soggetto a quello che gli psicologi chiamano adattamento edonico: finita l’euforia per la novità ci abituiamo al nostro nuovo status e ritorniamo al livello di felicità percepita a cui siamo mediamente abituati.
Gli esseri umani sono programmati per desiderare, non per apprezzare a lungo quello che ottengono.
Questo vale in special modo per i beni materiali: ville, auto di lusso, vestiti… il fatto di possederli, appena acquistati, genera un picco di piacere che si esaurisce molto rapidamente, perché restando uguali a se stessi questi oggetti dopo un po’ ci annoiano (questo senza contare il fatto che esaurito il piacere iniziale, dei beni materiali vengono più facilmente in primo piano difetti che inizialmente non avevamo notato, e alcuni sono anche soggetti all’usura del tempo).
Uno studio classico che ha contribuito a sviluppare il concetto di adattamento edonico è quello che negli anni ’70 ha messo a confronto un gruppo di vincitori alla lotteria con un gruppo di persone rimaste paralizzate a seguito di incidenti: non c’era una differenza significativa nei livelli di felicità percepita dai due gruppi, quantomeno in quella dichiarata. Soprattutto, l’esperienza di picco di vincere la lotteria, terminata l’euforia iniziale, ebbe due conseguenze: l’abitudine inesorabile al nuovo standard di vita ne azzerò l’impatto sul livello di benessere percepito, e allo stesso tempo rese più difficile ai vincitori apprezzare i normali piaceri della vita quotidiana, che però sono quelli più importanti per il benessere psicologico nel lungo periodo!
Uno studio sembra proprio confermare che più si diventa benestanti meno si rimane capaci di assaporare i piaceri della vita (gli inglesi chiamano questa abilità savoring), probabilmente perché quando quasi tutto diventa facilmente acquistabile è percepito come di minor valore.
Inoltre, tra le conseguenze di un’aumentata ricchezza c’è spesso il far fronte a un maggiore stress dovuto a un nuovo incarico professionale e a nuove responsabilità, unito alla suddetta difficoltà nel continuare ad assaporare i piaceri della quotidianità: quindi, se non si impara a gestire lo stress, il proprio tempo e il modo di valutare le esperienze vissute ecco che il benessere psicologico può colare a picco.
Nella nostra cultura si ricerca spesso la ricchezza, oltre che per accedere a beni materiali di pregio, per poter ostentare un certo status, ma ci sono ormai abbondanti evidenze del fatto che ragionare in termini di confronto sociale è totalmente deleterio per la propria autostima: nel vicinato, tra gli amici, sui social network, si avrà sempre a disposizione (la percezione di) qualcuno che ha qualcosa in più rispetto a noi, e seguendo questa logica non solo si starà male finché non si avrà come minimo pareggiato il conto, ma una volta che l’avremo fatto (che avremo pareggiato il conto), acquistando un’auto nuova o un paio di scarpe super glamour, vedremo la soddisfazione per l’acquisto svanire presto (per l’adattamento edonico) e nel frattempo aggiorneremo i nostri standard, pronti a confrontarci con qualcun altro che sembra stare meglio (o con la stessa persona con cui ci confrontavamo prima e che nel frattempo ha risposto alla nostra mossa).
In una spirale viziosa senza fine.
Ma se le persone si vogliono arricchire quasi sempre per acquistare status e beni di pregio, e queste due cose non hanno alcuna correlazione significativa col benessere psicologico (se si è al di sopra della soglia di povertà, insomma si è entrati almeno nel ceto medio, nel contesto in cui si vive), se non addirittura lo peggiorano, voler diventare ricchi è sbagliato?
No, non lo è, in linea di massima è corretto dire che non è voler fare soldi il problema, ma l’insieme di motivazioni che spesso nella nostra cultura stanno dietro questo desiderio, unite all’incapacità frequente di gestire le conseguenze di un’aumentata ricchezza, che abbiamo appena visto.
A livello di motivazioni, quelle psicologicamente sane ricadono tutte nella stessa categoria: voler fare soldi per metterli al servizio di un’idea trascendente, cioè in grado di portare valore e accrescere il benessere altrui.
A livello di gestione delle conseguenze, come spiega Sonja Lyubomirsky, ricercatrice e docente dell’università della California, è fondamentale sapersi ritagliare degli spazi per continuare a investire in esperienze utili alla propria crescita in termini di autonomia, competenza, qualità delle relazioni, in particolare esperienze in grado di nutrire le relazioni più intime che abbiamo.
I soldi portano qualcosa in più nella misura in cui ci permettono di fare più felici gli altri, che siano nella nostra cerchia di amici o, destinatari dei beni e servizi che produciamo, o bersaglio di attività filantropiche (o tutte queste cose insieme), perché le ricerche dimostrano che stiamo meglio quando grazie alle nostre azioni sappiamo che sono gli altri a stare meglio.
Per approfondire:
- Brickman, P., Coates, D., & Janoff-Bulman, R. (1978). Lottery winners and accident victims: Is happiness relative?, Journal of Personality and Social Psychology, 36(8), 917-927
- Lyubomirsky, S., Sheldon, K.M., Schkade, D. (2005). Pursuing Happiness, The Architecture of Sustainable Happiness, Review of General Psychology, 9, 111-131
- Lyubomirsky S. (2013), The Myths of Happiness, New York, Penguin
(ho pubblicato questo articolo anche su LinkedIn)